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agosto 12, 2004

TransBalkanExpress

Attraversata di slancio la Terra degli Schiavoni e tagliata a metà l’Istria, grazie ai buoni servigi degli hajduk dalmati e del Bisante di Illiria, che procurò altresì un lauto pasto notturno, la carovana si diresse senza tema, pur se gli impedimenta erano soverchi e gli dei invisi, alla volta dei Monti Balcanii, nella remota speranza di giungere ai confini di Tracia, forse su quel mare dove Stefano il Grande ricacciò gli infedeli nelle paludi di Vaslui e dove si dice che il Pogoarca di Bessarabia fosse uso immergere le placide terga in compagnia delle sue sedici mogli.
La carovana osò seguire la strada più breve alla volta del Banato, anche se il Gran Bej Istvan, Quadriconco di Strada Serre, risultava in fede sua privo di guiderdone imperiale e per questo motivo i rigidi bisanti alle frontiere di Vojvodina negarono il passaggio alla rozza carovana. Oh, qual landa maledetta, cupe vampe s’alzavano dalla terra verso il cielo al sordo boato delle esplosioni: erano le operazioni di sminamento del Gran Cammino Carraio che attraversava un tempo, prima che l’uomo odiasse il suo simile, la drugina di Vukovar e raggiungeva la Città Bianca dei Serbi.
Attraverso un agile camminamento, tra le terre incolte e basse di Pannonia, i pellegrini seppero infine raggiungere la Dacia, scoprendo i pericoli mortali delle vie del Maramures, gli orridi Visir biforcuti di Temesvar (l’antica Gradno transdanubiana che vide le gesta degli Anarcoprofagi di Mongolia) e la bellezza dimenticata dei passi montani che uniscono segretamente la Transilvania alla Valacchia Superiore, le cui strade sono note solo ai pope ortodossi che vennero quassù dalla Bucovina, ai biondi Rom smaragdini di stirpe sassone e a sordi e vecchissimi combattenti anticomunisti, pur fedeli all’eresia anularia del Serpente.
La strada del ritorno fu dunque gradita agli dei: sfiorata la tetra provincia di Moldavia, da cui provengono le urla di antichi contadini guerrieri della curva del Volga, i pellegrini poterono coprire la Pannonia per intero, vedendo con occhi increduli l’ancor fumante campo di battaglia di Mohàcs, tremando al barrito dello sfortunato corno di guerra degli Iazigi e ostentando i loro bivacchi soltanto sulle coste del bianco lago Balatone, dove le tribù magiare, eredi di Arpad, ubriacavano nottetempo gli invasori mamelucchi di Cappadocia con quel vino dolce che impararono dai Romani. Ivi la carovana, sopraffatta dalle mollezze del posto, perse la bussola e il favore degli dei, rimanendo mille e mille anni a mollo nelle calde acque vulcaniche, sorseggiando quel vino denso che strozzava le gole ed incollava le ispide barbe degli infedeli.

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